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Costruire e/è costruirsi



Editoriale:
Costruire e/è costruirsi. Il complesso rapporto tra architettura e educazione

Abstract
La riflessione parallela sull’architettura per l’educazione e sull’educazione per l’architettura, tenendo insieme due possibili declinazioni del loro legame, rivela la radicale affinità tra le due attività, sintetizzabile nel concetto di bildung: processo auto-formativo. Fondamentale nel pensiero ermeneutico di Gadamer, questa parola è al centro della «costellazione semantica» che vede legati l’educare e l’edificare, bildung e building, il formarsi e il dare forma dell’architettura, arché e téchne, secondo Renato Rizzi. Educazione e architettura sono esercizi di pensiero critico che condividono oltre a questa dimensione individuale, quella collettiva di “atto sociale”, ricordata da John Hejduk: educare alla capacità di costruire le proprie conoscenze all’interno di una visione critica, fare architettura come testimonianza di un’esperienza e interpretazione del mondo. L’architettura per le scuole può essere una Scuola per l’Architettura, ci ricorda che ogni esperienza autentica di architettura è animata dalla tensione conoscitiva dell’imparare.


Se intendiamo il termine educazione nella sua etimologia, da e ducere (portare fuori), processo formativo che consente di “divenire ciò che si è”, l’esortazione che Nietzsche riprende da Pindaro(1), allora ogni architettura dovrebbe essere educativa, consentirci una vita autentica, che ci rappresenti nelle nostre potenzialità.
La riflessione su architettura ed educazione, proposta in questo numero, collegando due declinazioni possibili del loro legame – architettura per l’educazione e educazione per l’architettura – parte dall’indagare la profonda e radicale affinità tra le due attività.
Sul primo estremo, quello dell’architettura per l’educazione, si intende superare la triste definizione di edilizia scolastica, che l’apparato tecnico normativo codifica con la freddezza di numeri e indici, perché se c’è un ambito della vita che merita architettura, e non edilizia, è proprio la scuola.
Nel tempo intercorso tra la proposta della call Costruire e/è costruirsi e l’uscita di questo numero del Magazine, il mondo dell’architettura italiano si è interrogato sull’architettura delle scuole, sollecitato dagli annunci del governo di nuovi interventi sul patrimonio edilizio scolastico.
In alcuni casi si è trattato di confezionare rassegne su edifici scolastici di qualità, in altri si è tentato un discorso più organico sulla relazione complessa tra architettura ed educazione.
Sul secondo versante, quello dell’educazione per l’architettura, la call si prefiggeva di sollevare una domanda: può l’architettura, a partire da progetti per la scuola, cogliere l’occasione per ripensare la propria dimensione pedagogica, i propri metodi e strumenti di formazione, anche in questo caso al di là degli apparati normativi e di valutazione che dominano l’università, compresa quella di architettura?

Tra gli interventi recenti sul tema, due scritti di Renato Rizzi affrontano la «costellazione semantica» che vede legati l’educare e l’edificare, bildung e building, il formarsi e il dare forma dell’architettura, arché e téchne. Il primo, intitolato Bildung-building(2), descrive i presupposti teorici e il metodo di lavoro dei corsi di progettazione architettonica tenuti allo Iuav di Venezia. Il secondo è il libro Il Cosmo della bildung(3) scritto a partire dal progetto di aula ideale elaborato, su invito della Triennale di Milano, per la mostra intitolata Di ogni ordine e grado. L’architettura della Scuola(4). Qui l’aula ideale è collocata tra l’interno e l’esterno della Cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze(5), topos elettivo del progetto in quanto incarnazione, essa stessa, di un programma didattico in grado di introdurre ai misteri dell’Architettura. L’affinità architettura-educazione, puntualmente esemplificata attraverso la descrizione del progetto e della costruzione del suo modello, emerge chiaramente nelle parole con cui Claudia Baracchi definisce l’educazione e che potrebbero ugualmente delineare un’idea di progetto: «Il senso primo dell’educazione è condurre alla forma […]. A partire dalla condizione nebulosa della potenzialità, si tratta di attraversare paesaggi umbratili e indefiniti, invenire forme e indovinarne la forza, lasciarle fuoriuscire dalla latenza così che possano trovare la via della manifestazione attiva, luminosa, compiuta nel mondo. È, questo, un movimento al contempo costruttivo e maieutico. È costruttivo, ma la forma costruita è simultaneamente forma trovata: non arbitrariamente imposta, ma sentita nella sua urgenza e inevitabilità, aiutata a sprigionarsi e a mettersi in atto»(6).
Nei due testi citati, l’educazione, sia quella dell’architetto che quella a cui l’architettura può dare forma col progetto di aula, è indicata con il termine bildung.
La parola tedesca bildung deriva dalla mistica medievale e la radice bild (immagine) evoca l’aspirazione per cui l’uomo, che custodisce nella propria anima l’immagine di Dio secondo la quale è creato, tende a costruirla in sé, a formarsi in virtù di essa.
Ponendo l’educazione all’architettura dentro la tradizione pedagogica della bildung, educazione e architettura convergono perché «Dobbiamo costruire l’immagine dentro di noi prima di poter costruire qualcosa fuori di noi»(7).
Nella lingua e nella cultura pedagogica italiana, educazione e formazione vengono impiegati prevalentemente nel senso dell’educare e formare l’altro. La lingua tedesca, invece, distingue bilden (formare), corrispondente al formare se stessi, da erziehen (educare), che corrisponde l’educazione dell’altro. Dunque la cultura pedagogica tedesca ha fatto ricorso al termine bildung per indicare un processo auto-formativo che assume un ruolo centrale nella tradizione neoumanistica tedesca e nel pensiero ermeneutico. Hans-Georg Gadamer in Educare è educarsi8 (a cui abbiamo fatto riferimento con il titolo Costruire è costruirsi) descrive due caratteri fondamentali della bildung: essa si differenzia dalla cultura in quanto tensione, processo potenzialmente infinito e non dote acquisita e si dà come responsabilità di ciascun uomo verso se stesso, non come un agire su altri.
Come dal motto nietzschiano citato da Rizzi, imparare significa allora «costruire i propri doni».
Anche se non riferiti specificamente all’educazione dell’architetto, alcuni passaggi in Gadamer sembrano risposte alle questioni su cui, periodicamente, si dibatte circa la formazione dell’architetto (specialismi o formazione generalista, ruolo delle discipline umanistiche e di quelle tecniche, rapporto con la professione, ecc.). In Umanesimo oggi?(9) si affronta la distinzione tra scienze umane o dello spirito e scienze della natura: le prime sono connesse all’idea di bildung perché l’uomo supera lo stato di natura corrispondendo a una tensione all’universalità insita nella sua parte spirituale, cogliendo i fenomeni nella loro irripetibile concretezza al di là della regolarità e conformità a leggi, perseguite invece dalle scienze sperimentali. La pressione del potere economico, che giudica la ricerca in base all’utilità dei suoi risultati al proprio potere, ha indotto le scienze umane a rinunciare alla propria identità per sottostare al modello positivistico di scientificità. Chiaramente «nessun profitto potrebbe recare al mercato lo studio della bildung» (e questo spiega la poca fortuna della didattica nei sistemi di valutazione che dominano il mondo universitario). Se l’idea di scientificità è dominata dal modello delle scienze naturali e la concezione del mondo è plasmata dalla tecnica sul principio dello sviluppo continuo, conclude Gadamer, la conoscenza tende a ridursi a informazione e i sistemi educativi, anche universitari, a percorsi professionalizzanti.
In La professione quale esperienza(10) Gadamer mette in guardia rispetto al pericolo insito in tutto questo: l’eccessiva regolamentazione e la burocratizzazione della società contemporanea, comprese quelle dei sistemi educativi, provocano la tendenza all’adattamento: «la capacità di adattamento viene premiata…, atrofizzando la capacità di interrogarsi. Smarrire questa facoltà significa smarrire la libertà. Perché solo la conoscenza di sé (l’esortazione dell’oracolo di Delfi, conosci te stesso) permette di salvaguardare la libertà, minacciata da colui che detiene il potere ma più ancora dalla soggezione a quelle forze che crediamo di dominare […]. Occorre che i percorsi educativi di scuola e università non confondano insegnare con il trasmettere informazioni, indirizzino alla specializzazione o alla vita lavorativa senza prima insegnare a giudicare, a scegliere, al coraggio di formare un giudizio proprio». Ancora, in L’idea di università: ieri, oggi, domani(11), scrive: «La parola Bildung certamente non è più molto amata […]. Lo scenario è dominato da sistemi di insegnamento e di apprendimento burocratizzati, ma è compito di ciascuno trovare degli spazi liberi e imparare a muoverci al loro interno […]. Questo il lato più nobile nella posizione irreversibile di emarginazione dell’università nella vita politica e sociale: il fatto che noi con i giovani e i giovani con noi sappiano trovare delle possibilità e con esse le opportunità di foggiare la nostra vita […] questo piccolo universo costituito dall’università è ancora uno dei pochi sguardi in avanti verso il grande universo dell’umanità».
Educazione e architettura sono legate anche da questa responsabilità verso la comunità.
È il «contratto sociale» di cui parla John Hejduk, per il quale architettura e insegnamento sono legati da sempre come per un imprintig risalente alle prime esperienze da studente. Lo racconta in una lezione sul tema dell’educazione tenuta nel 1995 a Barcellona, summa della sua posizione rispetto alla scuola e affermazione di un proprio percorso auto-formativo mai concluso, realizzato attraverso l’insegnamento come attraverso l’architettura(12).
Hejduk afferma di insegnare «per osmosi»(13) e di insegnare ciò che non sa, concetti che coincidono con i principi della scienza dell’educazione contemporanea «dell’educare allo sconosciuto»(14). Nella lezione di Barcellona descrive l’educare come «allenare se stessi a far emergere e sviluppare qualità latenti o potenziali […] liberare la propria sostanza da un composto e dedurne l’essenza»(15). Anche qui il riferimento non è tanto al ruolo maieutico dell’insegnante, ma all’azione che ognuno compie su di sé, dunque la bildung.
Educazione e architettura sono descritte come processi di conoscenza di sé accomunati dal dovere di rendere testimonianza di tale conoscenza. Entrambe esercizio di pensiero critico, condividono la dimensione individuale e quella collettiva di atto sociale: educare alla capacità di costruire le proprie conoscenze collocandole all’interno di una visione critica, costruire l’architettura come esperienza e interpretazione del mondo, ricerca e espressione di significati, ermeneutica e pedagogia.
John Hejduk ha l’occasione di far convergere l’esperienza di allievo, quella di insegnante e il lavoro di architetto, realizzando il progetto della propria scuola di architettura: propria perché quella in cui si è formato, perché è l’istituto che dirige e perché anche il suo progetto è un programma didattico per l’architettura.
Il progetto per la Cooper Union è quasi una realizzazione al vero del “Problema dei nove quadrati”, tanto che in Mask of Medusa è descritto come «un dispositivo pedagogico progettato sulla base di uno dei problemi fondamentali assegnati nella scuola. E gli studenti sono lì, a lavorare a questo esercizio dentro l’edificio che è un esempio di questo problema»(16). Compimento letterale dell’insegnare «per osmosi», attraverso la consistenza permeabile dello spazio, gli studenti si educano, anche, per un processo di trasmissione dalla sostanza dell’architettura in cui si trovano alla loro sostanza, quella di cui l’educazione deve liberare l’essenza(17).

I testi che compongono questo numero sono molto diversi tra loro ma ben rappresentano la varietà di approcci e riflessioni che il tema proposto attraverso la call ha sollecitato.
Nel suo scritto, Gioconda Cafiero sostiene il ruolo educativo dell’architettura nel suo dare forma e struttura al mondo umano evidenziando, in particolare, come la relazione tra senso e spazio nei luoghi per l’educazione amplifichi le potenzialità dello specifico approccio al progetto costituito dall’Architettura degli Interni. Attraverso la descrizione del legame tra alcune realizzazioni architettoniche nel campo scolastico e il pensiero filosofico-pedagogico che le ha plasmate, l’autrice osserva che il ruolo dell’edificio scolastico come “terzo insegnante” si manifesti non solo nel farsi strumento dei processi di apprendimento ma anche formando la capacità di riconoscere il legame tra qualità dello spazio e qualità dell’esistenza, sostenendo così la domanda di buona architettura.
Lo scritto di Ugo Rossi indaga invece la dimensione dell’architettura stessa come ermeneutica, conoscenza del mondo e attività di autoformazione continua, attraverso l’opera e l’esperienza di vita di Bernard Rudofsky, la sua passione di imparare dall’abitare degli “altri” per fare crescere il nostro abitare il mondo.
In un certo senso analogo, ma declinato in prima persona, è il processo descritto da Andrea Di Franco, che racconta la formazione all’architettura per «frammenti di un discorso educativo», necessariamente come processo aperto.
Il testo di Gaspare Oliva esemplifica, attraverso il caso brasiliano, come l’architettura possa elaborare tipologie e tecniche costruttive per le architetture scolastiche (il costruire) pensandole in corrispondenza proficua con un preciso e parallelo programma pedagogico (il costruirsi) all’interno di un programma organico di interventi predisposto dall’amministrazione pubblica.
Un tentativo di definire strumenti e parole con cui architettura e pedagogia possano dialogare per elaborare insieme progetti è proposto nell’ultimo testo, scritto a quattro mani da un’architetta e da una pedagogista. Sandy Attia e Beate Weyland fanno ricorso alla metafora del corpo, conducendo una riflessione sulla dimensione fisica, tattile, intimamente sensibile dell’edificio scolastico e cercando di gettare tra le due discipline un ponte lontano dai rispettivi lessici consolidati.
Leggendo gli scritti che lo compongono, si capirà forse che il numero non avrebbe potuto che procedere per frammenti, spezzoni di processi in fieri, esperienze non estranee a una componente autobiografica.
Continuando con i giochi di parole (il gioco, straordinario mezzo di auto-educazione) potremmo dire che l’architettura per le scuole può essere una Scuola per l’Architettura, perché impone di ricordare che ogni esperienza autentica di architettura è animata dalla tensione conoscitiva dell’imparare. L’architettura della scuola dovrebbe essere la stanza in cui saettano le sinapsi cerebrali – come, nella sua lezione, Hejduk definisce un interno di Loos – dove, superando il realismo che domina la pratica architettonica e il contemporaneo sistema educativo, testimoniare che le cose non devono essere necessariamente così come sono e come viene asserito da tutti che debbano essere.

Note
(1) Il verso di Pindaro “Diventa ciò che sei” (Pitica II v. 72) è ripreso più volte da Nietzsche. Tra le altre, nel sottotitolo di Ecce homo e in Schopenhauer come educatore. F. Nietzsche, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano 1991, F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, Adelphi, Milano 1985.
(2) R. Rizzi, Bildung-building, «Domus» n.1002, maggio 2016.
(3) R. Rizzi, C. Baracchi, S. Pisciella, Il Cosmo della bildung, Mimesis Edizioni Milano-Udine 2016.
(4) Triennale itinerante a cura di Massimo Ferrari. La mostra si è tenuta a Como, presso il Novocomum, dal 31 luglio al 9 ottobre 2015.
(5) Il progetto prevede all’interno una tribuna, posta tra la cupola e il tamburo, in cui novantuno studenti siedono sospesi sotto la volta celeste dell’affresco della cupola, e all’esterno una sfera dorata, posta alla base della lanterna in movimento rotatorio attorno all’asse della cupola, dove può entrare un solo studente. Il progetto è anche in «Domus» n.995, ottobre 2015.
(6) C. Baracchi, in Il Cosmo della bildung, op. cit. p. 23.
(7) R. Rizzi, Bildung-building, op. cit.
(8) H. Gadamer, Educare è educarsi, Il Melangolo, Genova 2014.
(9) H. Gadamer, Umanesimo oggi?, in Bildung e umanesimo, Il Melangolo, Genova 2012.
(10) H. Gadamer, La professione quale esperienza, in Bildung e umanesimo, op. cit.
(11) H. Gadamer, L’idea di università: ieri, oggi, domani, in Bildung e umanesimo, op. cit.
(12) Lezione tenuta in occasione del congresso dell’International Union of Architects, che proponeva, a scuole di architettura di tutto il mondo, un concorso per il progetto di una scuola di architettura per il futuro che traducesse tridimensionalmente una visione del futuro ruolo dell’architettura e dell’architetto. La lezione è trascritta in B. Goldhoorn (a cura di), Schools of Architecture, Netherlands Architecture Institute, Rotterdam 1996.
(13) D. Shapiro, John Hejduk or the Architect who drew angels, in «Architecture and Urbanism», n. 244, gennaio 1991, p. 59.
(14) Educating for the Unknown è il titolo di una ricerca di David Perkins, docente di Teaching and Learning alla Harvard Graduate School of Education, D. Perkins, Learning Whole: How Seven Principles of Teaching can Transform Education, Jossey-Bass, San Francisco 2009.
(15) Schools of Architecture, Op. Cit. p. 8. Non è indicato il dizionario da cui Hejduk trae la definizione. La traduzione è dell’autrice.
(16) J. Hejduk, Mask of Medusa: works 1947-1983, Rizzoli, New York 1985.
(17) Cfr. G. Scavuzzo, John Hejduk o la passione di imparare, in L. Amistadi, I. Clemente (a cura di), John Hejduk, Aión, Firenze 2016.

Giuseppina Scavuzzo è ricercatrice in Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Trieste, dove insegna Progettazione architettonica e Architettura degli interni. Ha svolto attività di ricerca, in particolare sull’opera di Le Corbusier, presso l’Università Iuav di Venezia e la Fondation Le Corbusier di Parigi. Ultima pubblicazione John Hejduk o la passione di imparare, in John Hejduk, a cura di L. Amistadi e I. Clemente (Aión, Firenze 2016).



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